Nella ricorrenza della battaglia di NikolaJewka , è svolto Al Giardino dei caduti in Russia sulla via cassia, l’incontro annuale di reduci, amici e familari al suon della fanfara dei Bersaglieri. Per non dimenticare e n ricordo dei caduti in Russia durante la seconda guerra mondiale, lo scrittore
Vincenzo Di Michele ha menzionato della dura sofferenza dei soldati italiani tra fame, malattie, sofferenze ed episodi di cannibalimo. Si riporta integralmente – tratto da libro ” Io Prigioniero in Russia di Vincenzo Di Michele – un breve racconto del protagonista di questa drammatica storia.
Era questi, il padre dell’autore del predetto libro. Si chiamava Alfonso e nel 1942 era un giovane alpino appena ventenne che a seguito di una cruenta battaglia sul fiume Don, fu catturato dai soldati Russi. Venne quindi internato nei campi di Concentramento dove a cominciare dal primo
Campo di Concentramento, quello di Tambov , la prigionia mostrò da subito la dura prova cui era
sottoposto, pena ” Vita o Morte”. Ecco cosa raccontò Alfonso nel suo diario che scrisse proprio
negli ultimi due mesi di vita, all’età di settanta anni.
Il Campo di concentramento di Tambov ( dal libro “Io Prigioniero in Russia “)
Se avessero scritto su un cartello all’ingresso di quel lager, ‘Benvenuti all’inferno’, la realtà non
sarebbe poi stata tanto dissimile, perché il campo di Tambov – o, meglio, tambòf, così come
pronunciato dai russi – può essere considerato solo come tale. Certamente, Dante Alighieri nella
sua “Divina Commedia” avrebbe trovato nuovi spunti per ulteriori gironi dell’Inferno, come ad
esempio il girone degli affamati o il girone dei pestilenti ammalat, fino al girone dei disperati.
Sempre in argomento, la famosa frase del celeberrimo scrittore fiorentino, ‘Lasciate ogni
speranza voi ch’entrate’, posta all’ingresso di quel maledetto lager, non avrebbe di certo travisato
le reali condizioni di vita in quel campo.
Arrivai a Tambov non consapevole di quello che la sorte mi riservava. Fino ad allora, una ragione
per soffrire era stata anche l’illusione di andare in un campo prigionieri ove avremmo avuto un
letto, la nostra spettanza alimentare e il diritto alla corrispondenza. Di quel giorno, però, la felicità
fu solo ed esclusivamente quando, dopo giorni e giorni di vita da animali ammassati l’uno
sull’altro, ci fecero scendere da quel treno bestiame. Si deve anche dire che in quel periodo gli
stessi russi si trovarono fortemente disorganizzati di fronte all’enorme numero di soldati che
avevano catturato. Quella loro vittoriosa offensiva sul fronte del Don, oltre ai molti caduti sul
campo, determinò un ingente numero di prigionieri. Il risultato di questo continuo degrado si
concretizzò praticamente in un ingente numero di malati la cui inevitabile sorte fu la morte. Infatti,
a causa delle malattie che si diffusero nel campo, come il tifo petecchiale, la polmonite, i
congelamenti, la tubercolosi e la dissenteria, si riscontrò un elevato tasso di mortalità. Nella
realtà dei fatti, e conti alla mano, nel periodo della mia permanenza a Tambov, che va da
gennaio 1943 a maggio del 1943, si riscontrò un tasso di mortalità di circa il 90 per cento. Detto in
parole povere, ogni cento uomini che sono entrati in quel campo, solo dieci e abbastanza
malconci ne sono rimasti indenni; “io sono stato tra questi”.